Una generazione castrata

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Sì; castrata.

Una generazione che è stata presa, cullata, portata alla maturità, allo sviluppo.

Poi, dopo che si era sviluppata; schiacciata.

Oh già.

Non accampiamo scuse, non cerchiamole.

Abbiamo davanti agli occhi il frutto dell’educazione che a questi ragazzi è stata impartita.

Chi l’ha impartita?

Che domande, noi.

Siamo noi che ripetevamo, quasi fosse una preghiera, incessantemente: “studia figlio mio, studia, tu che puoi, studia, vedrai dove andrai, farai esperienza, vivrai in un mondo globalizzato, diventerai qualcuno”.

“Le cose basta volerle, puoi fare tutto, essere tutto ciò che vuoi, se non lo sarai, significa che non ti sei impegnato”.

“La vita è impegno, è sacrificio, se non sei ancora arrivato, se non hai raggiunto il tuo obiettivo, è perché non ti sei impegnato”.

Però poi, quelle opportunità, gliele abbiamo fatte sfiorare, ammirare da lontano, ma strappate di mano.

2008.

L’anno della disfatta, della Crisi.

Mentiamo, la crisi c’era già prima.

Eravamo noi: quelli in crisi.

Noi cresciuti da persone forse più concrete, noi che mossi dall’idealismo credevamo di aver creato per i nostri figli un mondo nuovo, perfetto, straripante opportunità.

Chi tra noi cercava di dimostrare che non lo era, così, ma era diverso, veniva allontanato, meglio vivere in un sogno, meglio non turbare le giovani menti che sui banchi di scuola iniziavano a leggere “I promessi sposi” convinti che le ingiustizie fossero solo racchiuse ormai nei romanzi.

Meglio ripetere alle giovani generazioni che se si fossero impegnate sarebbero potute diventare “qualcuno”.

Ah sì, è accaduto, sono diventate “qualcuno”.

Ma un qualcuno diverso, un “qualcuno” anonimo, intercambiabile, usa e getta, un qualcuno sostituibile con “qualcun’altro”, che non è diventato “unico” come gli era stato promesso.

Ed è tra le mani di quelle generazioni cullate e coccolate che è esplosa la bolla.

Così la chiamano gli economisti “una bolla”, un qualcosa che si gonfia, vola, diventa grande, ma che in realtà contiene solo aria e dopo essere scoppiata mostra il vuoto al suo interno.

Questo è accaduto, è rimasto il vuoto.

Tante generazioni di “giovani”, che oggi non lo sono mica più tanto, che credevano di tenere in mano il proprio futuro, ma stringevano il vuoto.

Tante generazioni di laureati che pretendono, chiedono di poter fare il lavoro per il quale hanno studiato, ma che non lo fanno e non lo faranno.

Tanto dolore, tanto senso di inadeguatezza perché gli avevamo detto: “studia figlio mio, impegnati, se non raggiungerai il tuo obiettivo significa che non ti sei impegnato, che non hai fatto abbastanza sacrifici”.

In tanti ora lo credono, di non aver fatto abbastanza, di essere sbagliati, incapaci, non all’altezza.

Ed eccola arrivare, strisciante, appiccicosa, infame: la depressione.

La vedo, la depressione, la frustrazione mista alla vergogna che si origina dal proprio fallimento.

Alla mia età ancora lavoro, non so quando andrò in pensione, mio figlio non mi darà nipoti, troppo impegnato ad essere “all’altezza delle aspettative”, da aver tralasciato il resto.

Tornassi indietro glielo direi: nella vita devi crearti le tue possibilità, ti dovrai impegnare, ma sappi che potrai pure fallire e non dovrai provare vergogna.

Nella vita si fallisce spesso, il segreto per vivere bene è rimboccarsi le maniche e nel caso arrivasse accettarlo, il fallimento.

Io lo accetterò per primo, ho sbagliato, figlio mio, ho caricato sulle tue spalle troppe aspettative, ora lo vedo, quel peso, ti chiedo scusa.

Sperò però di sbagliarmi ancora, spero che dopo tutto la tua non lo sia: una generazione castrata.

Spero che ti potrai rialzare e trovare la serenità.

Il giostraio ti propone un brano da ascoltare dopo la lettura.

Rocco Hunt – Wake up: