Dentro la malattia

<<Cos’hai dentro?

<<Cosa scivola nel tuo corpo?

<<Spero solo che non corra, che possa scorrere lentamente, molto.

<<Spero che a volte si fermi.

<<Smetta di scorrere dentro te, spero davvero che non corra, cammini, piccoli passi, lenti passi, fermi passi>>.

Un corpo, questo era il suo limite, il suo corpo, il mezzo per poter vivere, comunicare, percorrere la vita, quel corpo, era il suo limite.

Era nato, cresciuto, bambino, ragazzo, amico, fratello, amante, collega, zio; l’elenco si era fermato.

Non sarebbe mai stato un marito, mai un padre, non avrebbe mai potuto crearsi una famiglia, lo sapeva, gliel’avevano detto, lui l’aveva capito, del resto, si ripeteva, non si può avere tutto dalla vita, sì, peccato che per lui quella non fosse più una “vita”, voleva più tempo, ma prima del tempo, voleva una vera vita, non così, non quella che era costretto a sopportare.

Era diventato già tante cose, ma voleva poter essere ancora altro, voleva potersi trasformare ancora.

Invece il suo corpo, il suo stesso respiro, lo bloccava.

Faceva fatica.

Fatica a pensare, a respirare, a camminare.

Così era costretto a letto, non sempre, solo qualche giornata.

Per recuperare le forze, per scendere a patti col proprio corpo e dirgli: se tu ti arrendi io no, quindi riposa, domani ci sarà ancora il tempo per vivere, quindi riposa, domani si lotta.

Ma la lotta, era tutta dentro, se la portava dentro.

Non lottava contro le ingiustizie del mondo, contro i soprusi altrui, contro il capo nervoso o il collega arrivista, lui lottava, ma non aveva un nemico di fronte contro cui lottare, da cui scappare, il nemico l’aveva sempre con sé, dentro.

Non capiva se stesse lottando contro qualcosa di estraneo, contro un intruso, contro un inquilino abusivo, oppure se la lotta fosse con il suo stesso corpo, come se il suo corpo si fosse arrabbiato con lui, per qualcosa che aveva detto o fatto, se l’era domandato, quando, si era chiesto quando era accaduto di aver mancato di rispetto a se stesso.

Ci aveva pensato, era capitato, quante volte?

Tante, chi non l’ha mai fatto?

Chi non ha mai mancato di rispetto a se stesso si alzi in piedi, accade, anche solo una volta, anche se lui l’aveva capito, aveva avuto il tempo per pensarci, aveva mancato di rispetto a se stesso molte volte.

Tante, troppe, non poteva neppure contarle, alcune le aveva rinnegate, altre dimenticate, altre non le voleva neppure pensare, perché è così che succede.

Si pensa sempre di avere tempo, che un piccolo scivolone ci sta, che si può sbagliare, tanto poi c’è tempo per rimediare.

Ora si accorgeva dell’errore.

In questa vita, in questa unica, sola occasione, deve essere “buona la prima”, non ci sono repliche, non ci sono rettifiche.

Polline; volava fuori dalla finestra, il polline, prima lo detestava, quei ciuffi bianchi che quando c’è il vento volano ovunque, se non fai attenzione entrano anche in bocca, si respirano, si appicciano agli abiti, ai capelli.

Non lo detestava più, il polline gli ricordava che un altro anno era passato, che lui c’era ancora, che il tempo stava passando e lui era ancora lì, lì per viverlo, per farlo ancora suo, il tempo, aveva ancora tempo.

Poi però, non sapeva come usarlo, aveva tempo, ma non aveva le forze, era a letto, arrabbiato, deluso dal suo corpo, frustrato.

Come può qualcosa che non si vede fare così male?

Eppure é così, eppure questa è la realtà.

Soffriva, rannicchiato nel suo letto, in camera sua, la camera che l’aveva visto crescere, non poteva più vivere da solo, aveva bisogno di aiuto, così era tornato a vivere con mamma e papà, soffriva anche per loro.

Non poteva immaginarne il dolore, sarebbe stato troppo per lui, soffriva, ma non poteva piangere.

Era così disidratato che non aveva lacrime, piangeva, ma il pianto era invisibile, muto.

Lottare, lottare, lottare.

Fino alla fine lottare.

Questo gli ripetevano gli amici, i parenti, i suoi genitori, i suoi fratelli, sua sorella, lo amavano, lo volevano con loro.

Ma mentre loro potevano vivere, lui era lì, era stanco, il suo letto era una piccola barca, lui remava, remava, faticava, ma non si spostava, il tempo passava, ma la sua situazione non cambiava.

Era un naufrago, poteva vedere il mare di vita attorno, ma non la poteva navigare, era in balia dei venti, non poteva far altro, se non farsi guidare dal suo corpo, dalla malattia che lo governava.

Lottava, ma lottare contro se stessi richiede fatica, dolore, forza, una forza che col tempo manca.

Non era depresso, era consapevole, la sua lotta presto sarebbe finita, non aveva accettato nulla, ma era consapevole, sapeva cosa sarebbe accaduto.

<<Cos’hai dentro?

<<Cosa scivola nel tuo corpo?

“La malattia, sì, sono malato, no, non c’è cura”.

Vorreste una storia di lotta, di coraggio, a volte la vita non crea eroi, ma vinti, a volte la vita è scomoda, ingiusta.

Ci sono storie di lotta e vittoria, ma anche storie così, senza lieto fine, frustranti.

Perché raccontarle?

Per far aprire gli occhi, non sprecate il vostro tempo, non mancate di rispetto a voi stessi, al vostro corpo, prendetevene cura.

Avete solo una possibilità, deve essere buona la prima.

Il giostraio ti propone un brano da ascoltare dopo la lettura.

Vasco Rossi – Vivere:

Al prossimo venerdì per un nuovo giro di giostra!