State lontani dalle finestre

“State lontani dalle finestre, camminate carponi, state lontani, mettetevi dietro alla colonna del corridoio, state lontani dalle finestre, quando sentite l’allarme, state lontani dalle finestre e aspettate la mamma.”

State lontani dalle finestre.
State lontani dalle finestre.
State lontani dalle finestre.

Rimbomba la voce.

Il papà l’aveva ripetuto tante volte, troppe, ma per lui mai abbastanza, dovevano imparare a stare lontani dalle finestre e aspettare la mamma.

Loro, l’avevano capito, anzi, l’aveva capito lei, sette anni, pochi per capire tutto, ma abbastanza per sentire il sapore amaro di quei giorni, abbastanza per respirare e sentire i polmoni bruciare, abbastanza per capire che doveva stare lontana dalle finestre e doveva tenere lontano anche lui.

Lui, come poteva solo lontanamente capire cosa significasse stare lontani dalle finestre?

Lui, amava stare alla finestra, dalla finestra vedeva arrivare il papà, si voltava e vedeva il sorriso della mamma, così serena nel vedere il marito fare ritorno, lui respirava la festa di quel momento, quindi, come avrebbe potuto capire il perché sarebbe dovuto stare lontano dalla finestra?

Lui, due anni che era al mondo e già doveva stare lontano dalle finestre, all’inizio camminare carponi per raggiungere la colonna del corridoio era un gioco divertente, vedeva anche la fiera mamma a carponi arrivare a prenderli; era così buffa, la grande gonna che lo nascondeva quando aveva paura, sgonfia, schiacciata a terra, sembrava volesse pulire tutto il pavimento.

Lui, che col tempo si era stufato del gioco, che aveva solo due anni, ma non era uno stupido, aveva assaggiato la paura e l’angoscia, stretto tra le braccia della sorellina, sentiva i rumori e si convinceva che fossero solo fuori, lontani e mai sarebbero potuti arrivare dentro.

Due piccole schiene appoggiate alla colonna del corridoio, lontane dalle finestre, lontane dalla luce del giorno, lontane dalla tiepida brezza del mattino, osservano un raggio di luce in cui la polvere vibra, non fluttua, trema, granelli di polvere che tremano tutt’intorno.

Il granello di polvere trema, un botto, no, non trema la polvere nel raggio di luce, tremano loro, no, non tremano loro, ormai non tremano più, sono rassegnati, affrontano tutto come un’abitudine, una costante della loro giovane vita.

Un botto.

Un cigolio che nell’aria si appropria del vuoto lasciato dal botto, dondola il lampadario di ottone dalle facce cristallo del corridoio, un arcobaleno di colori sulle pareti, tremano le finestre, perché?

Perché sta tremando la casa.

Trema la colonna, trema il loro riparo, ceramica spezzata, è la ballerina che prima era sul mobile del corridoio, quanto amava quella ballerina, l’aveva sempre guardata nei giorni in cui dovevano stare lontani dalle finestre, aveva imparato a danzare sopra ai rumori che erano fuori, stringere a sé il fratellino e perdersi fra le pieghe del suo tutù azzurro.

Lei, che voleva la mamma, che aveva paura, ma lasciava che ad abbracciarla per primo fosse lui, in fondo lei aveva già sette anni di abbracci, ma gli abbracci di quei giorni avevano un gusto diverso, agrodolce.

Così la mamma li prende per mano e corrono giù, giù, giù nel seminterrato.

Una porta bianca, la loro corsa sarebbe finita, una mano la apre, urla “veloci”, fuori rumori diversi, dentro rumori di pianti.

Piangono i bambini in fasce, piangono le donne impaurite, piangono le vedove e lei li ha visti, piangono anche gli uomini, quegli uomini forti che mai avrebbero macchiato il loro onore col pianto.

Acciaio lucido, è il vassoio di biscotti che la nonna di tutto il quartiere distribuisce ogni volta che suona l’allarme.

Un biscotto per un sorriso.

I biscotti più buoni che un bimbo che deve stare lontano dalle finestre possa mai desiderare, manca lo zucchero, il burro è poco, è il razionamento, ma mai un biscotto potrà essere più buono, regalare più amore.

Quei biscotti insipidi, bruciacchiati, li avrebbero ricordati per tutta la vita, li avrebbero voluti mangiare ancora, il loro ricordo sarebbe rimasto così dolce.

Raccontandolo ai nipoti li avrebbero chiamati i “biscotti di guerra” perché anche durante la guerra c’è bisogno di un biscotto e la nonna di tutto il quartiere lo sapeva.

Il vassoio d’acciaio ora è vuoto, non sono rimaste neppure le briciole, dentro è arrivata la notte, fuori ad ogni botto è giorno.

Al mattino dal seminterrato si sentono grida, urla, qualcuno grida più forte “libertà”, sono arrivati altri soldati con la divisa di un altro colore, gli adulti gridano ora più forte: “è la liberazione”.

La guerra finalmente é finita, ma dall’altra parte del mondo?
Un botto.
Un botto e un’altra guerra comincia.

finestre

Il giostraio, pur non essendo un grande intenditore di musica, né altresì conoscitore della storia personale di ogni singolo artista, vi propone un brano da ascoltare dopo la lettura.
N.B. la canzone, come sempre, è stata cercata e scelta dopo aver scritto il giro di giostra e non viceversa.

L. Ligabue, L. Jovanotti, P. Pelù -Il mio nome è mai più.